Un viaggio dal Portogallo in Calabria interamente fatto in macchina, il vestito di scena indossato in fretta, un abbraccio al volo, intenso e augurale, ai musicisti e a me, emozionata oltre misura, qualche “esercizio” vocale e fisico per prepararsi al pubblico, lo sguardo malinconico verso le stelle e la grande Pontes entra in scena allo Scolacium per il suo concerto. Potrei chiudere qui ché le emozioni davvero è difficile spiegarle quando diventano così pregnanti da mozzare il respiro e la voce. Un’artista mostruosamente brava, più che brava, intensa, che riesce a far vibrare il miocardio di ogni singola persona del pubblico fino al punto di farlo esultare, piangere. E me con lui, che ho letto nei suoi occhi, negli occhi di Dulce, la malinconia tipica delle persone sensibili, della gente del “sud”, che conosce la tristezza, la nostalgia, la difficoltà di questa meravigliosa e terribile vita a cui ridiamo di rimando ogni qualvolta ci bastona, alla quale rispondiamo con la bellezza dell’arte, quella percepita e quella che noi artisti creiamo, a dispetto del fato. E questo significa la parola Fado, fatum, destino. Ergo, una musica che ci parla del tipico sentimento portoghese della “saudade”, ovvero un sentimento di malinconia, nostalgia e sofferenza, il mal d’amore. La saudade per chi è partito, il quotidiano, le conquiste, gli incontri e gli addii della vita. Patrimonio culturale dell’Unesco, il Fado, nato ai margini della società, nei luoghi al confine della malavita e della piccola delinquenza urbana, “non è né allegro né triste, è la stanchezza dell’anima forte, l’occhiata di disprezzo del Portogallo a quel Dio cui ha creduto e che poi l’ha abbandonato: nel fado gli dei ritornano, legittimi e lontani… », come lo definisce Ferdinando Pessoa. E non ho forse letto questo tra le pieghe di quella voce sublime, di quelle note melanconiche, di quel sottile sospiro che aleggiava in platea, nel mio cuore stesso? E lei non è forse la vera Regina del Fado? Irrequieta, conturbante, potente nella sua placida e ingannevole quiete, che si svela essere una forza travolgente di emozioni quando si libra tra le stelle con la voce sensuale e unica a cantare la Vita, né bella né brutta, né buona né cattiva ma appassionato tormento senza tempo. Accompagnata da un trio di musicisti eccellenti in un’alchimia perfetta, ha emozionato tutti noi e mi ha trasportata tra le banchine di Lisbona dove, tra l’odore salmastro del porto e lo sciabordio delle onde sulle fiancate delle navi, i marinai salpavano versi altri lidi, portando con sé i canti malinconici dell’addio. Sono entrata in un locale del Bairro Alto per mangiare un chouriço anche se vegetariana, tanto nei sogni tutto è possibile; ho bevuto vino misto a lacrime salate nella penombra di pensieri dolceamari di fronte alla fatalità del Destino a cui nessuno sfugge. L’anima del Sud, questo so, di tutto il Sud del mondo, è forse la sola a comprendere il senso di questa esistenza verso la quale corriamo senza sosta né vera cognizione. Quest’anima unisce i popoli in similitudini di tradizione, sentire, di mancanze e ritorni; veste di scuro e ride e piange degli abbandoni; accetta il fato avverso e lo sublima nell’arte; canta i propri amori, la propria città, la miseria della vita. L’anima del Sud nasce dal fango e dal riscatto, dai canti del bisogno e dal cibo povero ma onesto. L’anima del Sud me l’ha ricordata Dulce nel suo abito viola, l’abbraccio di Paulo quando mi ha trovata in lacrime sulle note di Your Love, i sorrisi dei musicisti e l’urlo della gente, il vino e la frutta che ci rinfrancavano da ore e ore di lavoro e tensione mentre sciamavano le ultime note, il filo sottile della mia sigaretta che saliva in alto mentre ascoltavo Canção do Mar, e anche ora che butto giù queste parole nate direttamente dalle viscere di un’emozione ancora non sopita. Potrei parlare per ore del fado e di Amalia Rodrigues, di Maria Severa e delle contaminazioni musicali africane e brasiliane. Potrei analizzarvi ogni singola e appassionante frase di ogni canzone, da farci un trattato su ognuna davvero. Potrei, sì, potrei persino raccontarvi quanto il cibo sia sempre la cornice che accompagna, sostiene, consola, e quanto quel cibo consumato su piatti di note sia così simile al nostro. Potrei persino azzardare che la mia terra amatissima, la mia Calabria, sembra lo scrigno di tante diverse culture, quasi come se un misterioso viaggiatore, pirata e ladro, avesse nascosto per secoli i suoi bottini proprio qui in Calabria, tanto sono stupefacenti le similitudini con le tradizioni di tanti popoli. Potrei, sì, ma vi toglierei la curiosità di scoperchiare da voi il vaso di Pandora, per lasciarvi travolgere da quei sentimenti veri e terribili che il senso comune ci ha tolto, lasciandoci alla deriva di una tristezza, di una nostalgia e malinconia infinita e indefinibile e che, attraverso questa musica, riprendono casa in noi, rinvigorendo le pareti del cuore. Almeno per un po’…
video a cura di Alfa Video Produzioni
fotografie di Antonio Raffaele