Il jazz è lasciare che la luce brilli, non cercare di accrescerla – lasciarla essere
Keith Jarrett
Io aggiungo arditamente che il Jazz è pura libertà di espressione in tutte le applicazioni possibili dell’umano immaginario. Nulla come il jazz rappresenta la libertà a cui ogni essere anela ma anche gli scambi interculturali, la comprensione e la tolleranza. Una musica che già nello spartito è mobile, con un canovaccio di note su cui danzano variazioni, assoli, virtuosismi; piena di gioia di vivere, a tratti di intensa malinconia, inclusiva e imprevedibile con le sue contaminazioni musicali nel corso della sua storia: dal dixieland di New Orleans dei primi anni, allo swing, delle big bands negli anni trenta e quaranta, dal bebop della seconda metà degli anni quaranta, al cool jazz e al hard bop degli anni cinquanta, dal free jazz degli anni sessanta alla fusion degli anni settanta, fino alle contaminazioni con il funk e l’hip hop dei decenni successivi. Sensuale, sessuale, ribelle, mutevole, spirituale, materiale, eccessivo, emotivo, aggressivo. Insomma, se solo il jazz fosse identificabile a qualcuno sarebbe come il ragazzaccio che non vorresti mai incontrare e di cui ti innamori inevitabilmente e perdutamente. Sì, ti farà soffrire e tribolare ma il sangue scorrerà impetuoso nelle vene, facendoti fremere di piacere, ti renderà viva. Passione, ecco, passione e libertà. Nei secoli l’uomo ha represso tutto ciò che fosse puro istinto ma vana è stata la sua crociata verso ciò che considerava solo una bassa e animale espressione dell’animo umano. Siamo carne e sangue e creati per il piacere dei sensi. Sentiamo, godiamo, immaginiamo, viviamo! Il Jazz è il leitmotiv adatto alla nostra pura gioia di vivere, non v’è dubbio, nato negli anni della schiavitù quando, durante le ore di lavoro, gli schiavi cominciarono a cantare melodie africane per alleggerire la fatica, utilizzando recipienti di latta per simulare gli strumenti a percussione, spesso obbligati dai loro padroni perché non pensassero alla loro condizione e non organizzassero piani di fuga o di ribellione. Quando la schiavitù fu abolita le contaminazioni culturali africane si radicarono nel territorio, fondendosi con le culture europee, soprattutto inglese e francese, dominanti nel sud degli Stati Uniti. Dopo l’emancipazione nel 1865 la musica nera esplose: gli artisti neri irruppero nel minstrel show vivificandola; imperversarono spirituals, nacque il blues, divennero stars compositori e concertisti neri come James Postlewaite, Blind Tom, Blind Boone, John Douglass. Tuttavia il razzismo respinse tutti i neri nel ghetto: non liberi artisti, ma giullari dell’uomo bianco. La loro musica poté così circolare solo in bettole, bordelli, o in ambiti “minori”. Verso il 1895 la fusione tra musica nera colta e popolare generò a Saint-Louis il ragtime. A New Orleans un ulteriore incrocio produsse il jazz, che in origine era ragtime per banda con abbellimenti improvvisati. E’ quindi New Orleans ad essere la patria indiscussa del jazz. Non per niente la città ha uno dei soprannomi più belli, The Big Easy, che, azzardando una traduzione, può suonare in italiano proprio come “la città facile” o “la grande rilassata”, al contrario delle metropoli del Nord, attive fino alla frenesia ma spesso chiuse. New Orleans nei primi anni del 1900 aveva già consacrato diversi “King of jazz”: gente come il leggendario Charles Buddy Bolden, Bunk Johnson e, soprattutto, il trombettista Joseph “King” Oliver che scoprì e lanciò Armstrong. Il primo disco di jazz (1917) viene inciso per caso da un quintetto di bianchi, l’Original Dixieland Jazz Band. Dal 1923 la discografia jazz si fa più ricca e ci mostra l’espansione del jazz a Chicago, New York, Kansas City, mentre New Orleans, abbandonata dai suoi eroi, si impoverisce. E’ questo il periodo classico del jazz. Con Louis Armstrong , trombettista, i cui assolo arditi e il canto rauco ne fecero l’idolo del pubblico nero e dei musicisti, e Sidney Bechet il jazz di New Orleans tocca il culmine e muore, trasformandosi in uno stile nuovo, più solistico e aggressivo. La Crisi del 1929 spazza via tutto ma il jazz sopravvive, quasi di nascosto. Durante la Depressione (1930-34) emerge Duke Ellington, il più grande compositore jazz. La ripresa economica apre le porte alla rinascita del jazz, ora chiamato swing (decennio 1935-1945). Sull’onda del successo del bianco Benny Goodman il jazz conquista platee mondiali, in una forma orchestrabile ballabile. Ridotto infine a meccanico ingranaggio di danza, lo swing viene seppellito dal bebop, uno stile decisamente nero, aspro, ribelle e tumultuoso, creato da grandi solisti come Charlie Parker, Dizzie Gillespie, Bud Powell e Thelonious Monk . Il bebop, stile capriccioso, inorecchiabile, di enorme difficoltà esecutiva, basato su ritmi intricati e melodie tortuose, si connotò subito come una musica ribelle, protestataria, intesa da pochi iniziati. Con il bebop, il jazz diventa musica di puro ascolto e perde molto del suo pubblico, che preferisce cantanti melodici (Frank Sinatra) o il rhythm and blues, genere di musica afroamericana popolare, cittadina, dal ritmo marcato e ballabile, cantata con inflessioni blues. Tuttavia, dal 1955 la voga del rock and roll fa del jazz la passione privata di un’élite di cultori borghesi. Il bebop si rinnova nei preziosi capolavori di John Lewis, Miles Davis e Gil Evans, approdando talora a espliciti incroci con la musica europea moderna. Intanto cresce il risentimento razziale, che dal 1956 sfocia in marce, sit-in e scontri per ottenere l’uguaglianza dei diritti. I neri si fanno più decisi, orgogliosi e consapevoli delle proprie radici culturali ed il jazz diventa lo strumento per esprimere la loro battaglia. L’ascoltatore abituato all’armonia europea resta perplesso e il jazz vede svanire il suo pubblico, “rubato” più facile rock. Dopo il 1960 lo scontro razziale si infiamma e con esso la musica: ben presto al free jazz si avvicinano anche Taylor, Dolphy e, da ultimo, Coltrane, che diviene leader carismatico della nuova generazione, quella dei furiosi Archie Shepp e Albert Ayler. Ma in breve l’incendio si spegne: muore Coltrane (1967), esplode la contestazione studentesca e il rock vive la sua stagione d’oro, facendosi interprete dell’ansia di ribellione dei giovani. Nel 1969 il jazz sembra di colpo un fossile. Miles Davis è il primo tra i grandi ad accettare il fatto, e indica la via del jazz-rock, unendo l’arte improvvisativa e la sapienza armonica del jazz con i colori degli strumenti elettrici. Dal 1972 il bebop e il jazz modale diventano sempre più familiari alla massa, spesso arrivata al jazz dal rock, come me per fare un esempio. E questa è storia che ho voluto raccontare perché meglio si comprenda quanto questa musica, più di ogni altra, rappresenti tutto l’umano immaginario spirituale ed emozionale, dal puro piacere dei sensi, come suggerisce la parola “jazz”, ai più alti principi dell’uomo e valori universali, nonché al puro piacere dell’ascolto di una musica che eccita le corde più profonde dell’Io. Solo un altro “piacere” riesce a farci sentire bene così, e liberi: il cibo. E cibo e musica sono un binomio sensuale esplosivo e perfetto. Il Jazz e il cibo, poi, sono puro godimento per l’anima e il corpo. C’è sempre stato uno stretto rapporto fra cibo e jazz. Il “Ronnie Scott” di Londra, ad esempio, che è uno dei migliori jazz club del mondo, permette di consumare cibo mentre si assiste ad un concerto. La “liason” fra cibo e jazz è iniziata almeno trenta anni prima della nascita di Mingus potente e visionario come la sua immensa musica. Gli spettacoli nei Ballroom, o nelle più piccole Barrelhouse, offrivano nel “pacchetto-serata” rifocillamenti tipici della cucina creola. Ma anche i cantanti di blues, in forme più casalinghe, si esibivano nei “barbecue parties” o nei “rent parties”, dove venivano servite trippa di maiale e interiora. Per molti di loro era l’unico cibo della giornata. Non a caso i primi pianisti di boogie-woogie, data la loro frequentazione dei rent parties, avevano scritto brani dai titoli culinari per esaltare le qualità dei cibi che venivano consumati. I cibi strettamente legati al Jazz erano la trippa, le frattaglie, i cavoli rossi, i fagioli rossi con riso, giunture, code, zamponi, testina di maiale. Insomma, tutti cibi del sud che presto si estesero a macchia d’olio fino al Nord e che, se vogliamo, ci ricordano la cucina “povera” romana. New Orleans era anche un grandissimo porto e di certo non potevano mancare la zuppa e il pesce fritto. Tra i tanti aneddoti pittoreschi ve ne è uno, ad esempio, che racconta di Lester Bowie, il leader dell’Art Ensemble of Chicago, che, dopo un concerto a Roma, chiese del pollo fritto da mangiare. Gli fu offerta, in cambio, una porchetta di Ariccia. Assaggiatala con riserva gli piacque molto, asserendo che qualcosa di simile alla porchetta si poteva trovare anche nel sud degli Stati Uniti. Legata al cibo e al jazz c’è un altro racconto divertente. Pare che Charlie Parker fosse stato soprannominato Bird per la sua passione sfrenata per le ali di pollo fritte. Sembra che un giorno, girando con la macchina in campagna, investì un pollo. Lo raccolse e lo fece cucinare dal cuoco dell’albergo, offrendolo a tutti coloro che erano a cena con lui quella sera. Divertente, vero? Sono tante le leggende metropolitane che colorano il mondo del jazz, e tutte scandalosamente sfacciate, eccessive, bellissime ed eccitanti. Per questo non è un caso che il jazz sia il miglior “amante” delle nostre cene. Pensate, il cibo è uno dei piaceri e necessità dell’uomo più grandi. Eccedervi è pericoloso in molti modi. Ed è questa sua rischiosità che lo rende desiderabile, come tutte le cose “inibite” dal buonsenso e dalla moderazione. Tuttavia, immaginatevi in una tranquilla serata di luglio, con le finestre aperte ad ascoltare il frinire delle cicale, lo scoppiettìo vivace della pentola sul fuoco, il luccichio del calice colmo di vino che vi tenta mentre tagliate il pane, i vostri sensi che danzano voluttuosi mentre gustate del cioccolato sulle note di Dee Dee Bridgewater che canta “J’ai deux amours” e ditemi che non vi sentite in Paradiso, eccitati di fronte ad una porta che dà pericolosamente l’accesso in stanze chiuse dal senso comune che promettono di svelarvi abissi insondabili della vostra anima, che possono mettere a nudo i vostri più nascosti desideri, rendervi gioiosi e pronti ad urlare solo per il gusto di essere, di vivere quel momento, che muove i vostri piedi in una danza liberatoria e felice. Oh, non so voi ma io, iniziata già in fasce alla lirica, innamorata da adolescente del rock, segretamente amante del soul, incapricciata del funkie, che non disdegna affatto la musica elettronica e il pop, ebbene, ho trovato la mia anima più vera e libera nel Jazz. La musica è la più completa delle arti, è l’ordito su cui si dipana la trama della nostra vita e dei nostri sentimenti, tutti. Il cibo ne è la cornice più preziosa, non v’è dubbio. E tra cibo e musica, in quel luogo magico ricco di storia e mito qual è il Museo Archeologico di Locri, abbiamo assistito al concerto spettacolare di una delle regine del jazz: Dee Dee Bridgewater. La sua carismatica voce, la sua sensuale danza, la simpatia travolgente e l’impareggiabile supporto dei suoi eccezionali musicisti, ci hanno riportato alle fumose strade di New Orleans, tra peccati e odori, tra eccessi e voluttà, ricordando donne che hanno cambiato la storia dell’uomo, come Joséphine Baker, ballerina, attrice e commediante, durante gli anni 20 e 30, socialitè e spia francese durante la seconda guerra mondiale, attivista per i diritti civili durante gli anni 50 e 60; insomma, una donna poliedrica che è stata in grado di rompere gli schemi e di anticipare il proprio tempo. In fin dei conti non è quello che ogni donna fa? Se dovessi affibbiare una musica alle donne sarebbe proprio il jazz che, come le donne, nasce dal dolore, dal sacrificio e sofferenza per affrancarsi con coraggio e forza, che trae linfa dall’istinto e dal profondo dell’anima, che unisce gli uomini attraverso l’espressione dei sentimenti universali e dalla bellezza. Quella bellezza che Dee Dee ci ha donato con tanta semplicità e generosità, soprattutto per la mia gioia che, ancora oggi, non so quantificare. Non so voi ma i piaceri più grandi, per me, sono musica, teatro, scrittura e cibo. Sabato li ho vissuti tutti in tante variegate e colorate sfaccettature. E con me oltre 1000 persone. Un unico cuore che danzava sullo spartito giocoso e imprevedibile del jazz. Con Dee Dee che ci ha augurato una vie en rose pour l’éternité.
video a cura di Alfa Video Produzioni
fotografie di Antonio Raffaele