L’Italia é il paese della “chiacchiera”, certo vivace e creativa, ma pur sempre volatile, quando non populista o polemica, alla ricerca di “un posto al sole”, in questa terra di Mediterraneo dove il sole, in vero, bacia tutti.
Fortunatamente, in un’alchimia particolarissima, i fatti poi, soprattutto quelli artistici, riescono a fare la differenza. Ed é, tra tante altre, il Paese del Teatro alla Scala, un luogo di culto musicale indiscusso per tutto il mondo.
Non solo bello, non solo con bella musica, ma anche con tante belle sfide. Il 7 dicembre, consueta data inaugurale della stagione operistica, l’Andrea Chenier di Umberto Giordano diretto da Riccardo Chailly e con la regia di Mario Martone, era appunto una quelle sfide belle, ma senza rete. Lo diciamo subito: sfida vinta!
E il miracolo é stata anche l’unanimitá di pubblico, musicisti ed professionisti del mondo operistico, critici, media.
Quale isolatissimo “buh” dal loggione, in coda agli oltre 10 minuti di applausi finali, é apparso quasi un “dissenso per gioco” o più ancora solo un modo inopportuno e “stupidino” di voler far sentire che il famigerato loggione scaligero esiste ancora.
Dicevamo una sfida non solo vinta, ma foriera di un’idea sana e forte sia di “opera” che di direzione artistica. Provo a spiegare.
E parto dal secondo punto. Era giá difficile, nel tempio verdiano, proporre un’opera verista e per di più del filone popolare e passionale nel quale Giordano si colloca, e che se coinvolge e commuove tanti, a molti altri, forse anche per snobismo intellettuale più che reale inclinazione culturale, fa storcere un po’ il naso. ( E ciò, in mondo dove fa da padrone la narrazione emozionale nel migliore dei casi o la comunicazione urlata e massificata nel peggiore, risulta alquanto incomprensibile.)
Ma difficile lo era ancora più affidando il ruolo di Andrea Chenier, ruolo che fu memorabilmente di Pavarotti e Beniamino Gigli o anche di Mario Del Monaco, a Yusif Eyvazov, tenore quarantenne azero, dalla voce certamente strutturata e solida, ma che tuttavia, prima di questa “prima”, risultava altalenante negli esiti, soprattutto nella duttilità necessaria al fraseggio, alla dinamica e agogica musicale, alla diversificazione di registri.
Il peggio, sempre prima di questa “prima”, era peró il rischio di essere considerato “il principe consorte”, per le cattive lingue “il principe gregario e aggregato”, di una vera star mondiale della lirica, la strepitosa e “totale” Anna Netrebko che in questa produzione scaligera ha interpretato, da parte suo senza sorprese e con una lettura da incantamento della romanza “La mamma morta”, la coprotagonista Maddalena.
Ebbene, non solo ciò è stato clamorosamente smentito dalla performance del tenore che é apparso per nulla intimidito dall’altezza della prova e del contesto, regalando un’interpretazione sorprendente per precisione e ricercatezza musicale e sicurezza performativa, ma in scena l’afflato naturale degli sposi é stato un valore aggiunto in termini di fluidità e “verità” del racconto, nonché del mondo poetico di Giordano.
Prova magistrale anche del baritono Luca Salsi, Gerárd, del tutto convincente per padronanza musicale e di palcoscenico.
D’altra parte, ed eccoci al primo punto di questo ragionamento critico (l’idea di opera), il direttore d’orchestra Chailly ha proposto una lettura lucidissima, rispettosa del testo e nello stesso tempo ricca e raffinata, in buona sostanza quasi innovativa laddove si è pensato sempre ad Andrea Chenier con un dispiegare voci ed orchestra nella consueta evidenza verista, ed invece Chailly restituisce equilibrio tra musica e parola, forse persino favorendo la prima nel declinarla con precisione, flessibilità e in og i caso aderenza totale ai contenuti della storia.
Intensa anche la scelta di dare poco spazio agli spazi (quelli per gli applausi, quelli tra gli atti) per favorire un respiro lungo a tutto vantaggio della visione complessiva dell’opera.
Forse addirittura, senza apparire assolutamente ridondante, ha restituito allo spettatore quel quid di “esplicitazione emotiva” che forse mancava alla regia. Questa, pur di grande eleganza e molto classica sebbene con soluzioni sceniche interessanti e non scontate (come la gestione di una scenografia girevole e delle curatissime luci), è risultata un pizzico troppo sobria rispetto alla potenza della storia, alla chiarezza della scrittura musicale, e alla ampiezza delle voci in scena.
Infine, crediamo che sia da compiacersi del fatto che quest’anno, in modo molto più netto rispetto ai precedenti a cui La Scala ci ha abituato, la protagonista delle cronache sia stata l’opera e non la mondanità, grazie all’assenza di molti big della politica e, come emerso dalla diretta, ad un più composto “show” di abiti e più riservato salotto di relazioni.
Intanto speriamo che prima o poi, pur senza le inimmaginabili vette scaligere, anche la Calabria potrá produrre lirica almeno con questo livello di consapevolezza culturale e di creativitá artistica.